Cosa raccontano le foto sugli effetti dei terremoti (come quello del Belìce)

Belìce terremoti

I terremoti raccontati attraverso una serie di scatti che fermano/hanno fermato gli effetti di ieri e di oggi sul paesaggio e l’ambiente, in un progetto che li ha ri-fotografati: a distanza di oltre 50 anni, è il sisma della valle del Belìce a essere protagonista di tale narrazione. Le zone colpite con violenza nel gennaio del 1968 sono infatti diventate oggetto di immagini attuali messe a confronto con quelle all’indomani delle scosse, sovrapposte attraverso software specifici, utili per comprendere in maniera chiara e immediata i cambiamenti sui territori, analizzando per via indiretta le conseguenze degli eventi sismici dal punto di vista sociale e ambientale. È stato, questo, l’argomento dello studio “Landscape, Memory, and Adverse Shocks: The 1968 Earthquake in Belìce Valley (Sicily, Italy): A Case Study” realizzato dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) in collaborazione con l’Università degli Studi di Catania e l’Accademia di Belle Arti di Palermo. Il lavoro, recentemente pubblicato sulla rivista scientifica ‘Land’ di MDPI, evidenzia come la fotografia possa essere uno strumento utile a scopi sia scientifici sia divulgativo-formativi. Con l’obiettivo, non certo indifferente, di favorire nella popolazione la consapevolezza del rischio sismico e di altri rischi naturali.

Mario Mattia, ricercatore dell’INGV e co-autore dello studio, sottolinea come sia stato fondamentale, nel narrare il sisma del Belìce, il “corposo patrimonio fotografico d’archivio del quotidiano ‘L’Ora’ di Palermo, custodito presso la Biblioteca Centrale della Regione Siciliana”, aggiungendo: “Attraverso un lavoro di campagna svolto nel 2020, abbiamo ri-fotografato quegli stessi luoghi per rilevare la configurazione territoriale più recente e valutare l’impatto del sisma nel tempo”.

BelìceLa Valle del Belìce, dopo gli eventi sismici e la difficile/molto parziale rinascita economica, sociale e culturale, ha dovuto via via fare i conti pure con un costante spopolamento. Questo ha contribuito ad accentuare la percezione di ‘abbandono’ di un territorio in cui gli interventi di ricostruzione, a distanza di oltre 50 anni dal terremoto, non sono riusciti a colmare il divario con il resto del Paese. Per il ricercatore dell’INGV, l’attività di ri-fotografare la Valle (che al momento del terremoto era considerata di rischio sismico basso), “ha consentito riflessioni che corroborano quanto si può ancora dedurre dall’osservazione diretta del territorio dal punto di vista, ad esempio, dell’abbandono e della museificazione delle rovine”. Considerando che, tuttavia, i 50 anni trascorsi dal 1968, per quanto interminabili siano stati per le comunità locali, sono “un periodo di tempo ancora troppo breve per permettere di leggere efficacemente i cambiamenti in un contesto territoriale che sembra essere rimasto ‘congelato’ nel tempo”.

La ri-fotografia è una tecnica spesso utilizzata in sociologia e geomorfologia poiché è in grado di restituire un’efficace narrazione didascalica dell’evoluzione di fenomeni sociali e naturali. Perché utilizzarla per parlare di rischi naturali? Perché può rappresentare un’opportunità per migliorare la percezione del rischio e la resilienza nella popolazione, nonché elaborare e attuare strumenti di prevenzione e difesa.

La collaborazione dei tre attori del lavoro, si pone all’interno del progetto “Belìce +50” che ha già prodotto il primo volume a stampa edito dall’INGV dal titolo “Belìce Punto Zero” (che può essere scaricato gratis linkando qui).