Schwa: ma chi è costei?

schwaAllora, se ne parla parecchio, in giro (ovviamente questo è un argomento davvero fondamentale nella vita di tutti noi, altro che guerra in Ucraina), dello o della (non si è ancora capito bene) schwa, una sorta di e capovolta, una roba del genere “Ə”, una vocale-non vocale (anche qua non si comprende bene la pronuncia). Insomma, ci dicono gli esperti che la (o lo) schwa è una vocale neutra, il cui uso sarebbe indirizzato a proporre un linguaggio diverso da quello tradizionale, dove protagonista assoluto è il maschile per indicare la pluralità dei generi. Per evitare fraintendimenti (l’uso dell’asterisco sulla lettera finale è evidentemente finito nel dimenticatoio), in una societàschwa che cambia e dove maschile-femminile non sono a quanto pare più opportuni e politically correct,  anziché “tutti”, meglio usare “tuttə” (a sinistra una rappresentazione secondo tuttoscuola.com). Però qualche giorno fa, il/la schwa (ə) nel bando di un concorso pubblico all’università, ha provocato la dura reazione di tanti intellettuali che hanno dato vita a una petizione contro il suo utilizzo, il cui primo firmatario è Massimo Arcangeli, professore di linguistica italiana all’Università di Cagliari. Su “Il fatto quotidiano” del 19 febbraio, è stato proprio lui a spiegare perché ha promosso la petizione contro la vocale cosiddetta ‘inclusiva’, “sottoscritta al momento”, scrive, “da quasi 22.000 firmatari, siglata da una trentina di intellettuali, fra linguisti e letterati, storici e filosofi, artisti e scrittori (da Massimo Cacciari ad Alessandro Barbero, da Edith Bruck ad Ascanio Celestini, da Cristina Comencini a Barbara De Rossi, da Luca Serianni a Francesco Sabatini, da Gian Luigi Beccaria a Claudio Marazzini)”. Arcangeli sostiene: “Lo schwa non è un semplice neologismo. È un corpo estraneo che viola irrimediabilmente le regole ortografiche e fono-morfologiche della nostra lingua, e immetterlo in un documento prodotto da un’amministrazione centrale dello Stato pubblico è un precedente di una gravità inaudita. Autorizza chiunque, d’ora in poi, a redigere un atto pubblico in emoji o in volgare duecentesco, o magari a disseminarlo di ke, xké o qlc1 (invece di che, perché e qualcuno). Il professore dice che lo/la schwa dà un “impulso alla generalizzazione (gratuita)” e che nei sei verbali relativi al famoso bando che ha scatenato la sua posizione, “sono stati usati gli schwa (ecco, qui si parla al maschile, ndr) in modo indiscriminato, in riferimento a se stessi e ai candidati esaminati, come fossero tutti portatori di identità non binarie”. Poi, di fronte a chi ha individuato nello/nella schwa una soluzione alla mancanza nell’italiano del genere neutro, rendendolo davvero “inclusivo”, Arcangeli spiega come in realtà faccia cancellare i femminili dalla nostra lingua. “Se l’unanime volontà dei membri della Commissione universitaria era di dare cittadinanza, nei loro verbali, anche al genere femminile, evitando il maschile sovraesteso, sarebbe bastato riferirsi ai candidati e alle candidate, agli autori e alle autrici, e così via, o si poteva parlare di persone e chiuderla lì. Plurali inclusivi come autorǝ o coautorз, anziché contrastare davvero i maschili autori e coautori, spediscono di fatto in soffitta i femminili autrici e coautrici”. Quindi, altro che “difesa” del femminile, come accennato dai fautori della/dello schwa. E c’è chi, come il filosofo Massimo Cacciari, paventa una intolleranza anziché un rispetto verso le persone che non passa certo attraverso “trasformazioni artificiali e meccaniche della lingua italiana”. Fatto sta che sarebbe assai difficile rivedere gli scritti dei nostri grandi all’insegna della/dello schwa. Il dibattito continua.