Plant Revolution: come il peperoncino conquistò il mondo

Capsicofagi e altre storie: Plant Revolution

Plant Revolution: e il peperoncino conqistò il mondo

 Capsicofagi: ma chi sono, costoro? Mangiatori (accaniti) di peperoncini: ce lo spiega con i suoi ricordi di bambino lo scienziato Stefano Mancuso, neurobiologo vegetale, nel suo “Plant Revolution-Le piante hanno già inventato il nostro futuro” (Giunti, € 20).

In uno degli interminabili pranzi di nozze in Calabria (sua terra d’origine) cui partecipava con la famiglia, scopre appunto un gruppo di capsicofagi che, arrivati alla festa, si siedono e, nell’attesa dei piatti, tirano fuori dalla tasca della giacca “un grosso mazzo di peperoncini. Lunghi come cornetti, rossi e verdi. Bellissimi”. E quando cominciano a mangiare il piccolo Mancuso ne nota i movimenti, in una “precisa gestualità” da capsicofago. “La mano destra porta il cibo alla bocca mentre la sinistra serra nel pugno un peperoncino”, racconta… “Un boccone di cibo, un morso al peperoncino; boccone-morso, boccone-morso, senza saltare un turno, con qualsiasi pietanza, precisi come dei metronomi”.

Perché, si chiede in questo suo libro il professore, direttore (anche) del Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale (LINV), oltre un terzo della popolazione del pianeta mangia piccante, provando una sensazione terribile di bruciore alla lingua e al palato ma proseguendo a nutrirsi così, “solo” così? Tutto è legato alla presenza della capsaicina, responsabile proprio della sensazione di bruciore, un elemento che ha fatto del peperoncino una pianta super ricercata, in grado di creare una vera e propria dipendenza da chi lo assume, noi esseri umani poiché non ci sono casi di mammiferi diversi che gradiscono tale frutto. Dunque “il peperoncino si è affidato alla chimica per legare a sé il più potente e versatile dei vettori animali: l’uomo”. Insomma, la pianta del peperoncino ha inventato una strategia di gran successo per espandersi e diffondersi: essere mangiata da noi.

Solo una, questa, delle storie grazie alle quali Mancuso dimostra come le piante siano tutt’altro che banali o semplicemente belle, ma piuttosto organismi che per continuare a sopravvivere hanno messo a punto meccanismi sofisticati ed evoluti molto più resistenti e moderni degli animali, un connubio perfetto tra solidità e flessibilità. Non solo: hanno straordinarie capacità di adattamento grazie alle quali possono vivere in ambienti estremi assorbendo l’umidità dell’aria, mimetizzarsi per sfuggire ai predatori e muoversi senza consumare energia. E la loro forma più intima è una fonte di continua ispirazione. Dalle nervature delle foglie alla struttura dell’apparato radicale, tutto nelle piante è realizzato in forma di rete, in un sistema decentralizzato senza un vero capo: non ricorda qualcosa, magari la topografia di internet?
E l’architettura ha trovato nei vegetali le sue muse. Tutto cominciò quando (era il tempo dell’Esposizione universale di Londra del 1851) Joseph Paxton, il capo-giardiniere di William Cavendish, sesto duca di Devonshire, prendendo spunto dalle strutture delle foglie di Victoria Amazonica, progettò l’enorme padiglione Crystal Palace, in ghisa e vetro. E per citarne solo altri due, nel 1956, l’ingegner Pier Lugi Nervi e l’architetto Annibale Vitellozzi, imitarono la struttura delle nervature delle gigantesche foglie di quella parente delle ninfee per il Palazzetto dello sport di Roma…
Dunque, ce n’è da imparare dalle piante che, ricapitolando, consumano pochissima energia, hanno un’architettura modulare, un’intelligenza distribuita e nessun centro di comando: c’è qualcosa di meglio?