Cop 15 e il patto con la natura: chi ne terrà (davvero) conto?

Cop 15La più “famosa” è la Cop 27, la conferenza internazionale sul clima: terminata a novembre in Egitto, nonostante il grido da più parti all’insegna del “non c’è più tempo, il clima sta uccidendo l’Europa”, i risultati sono stati abbastanza deludenti. Indifferenza e ostracismo hanno riguardato gran parte dei rappresentanti delle nazioni partecipanti. Un fatto positivo è tuttavia legato alla istituzione di un Fondo per la compensazione economica dei Paesi più colpiti dal riscaldamento climatico, di cui tra l’altro hanno minori responsabilità storiche. La Cop 27 ha infatti stabilito un “loss and damage”, perdite e danni legati appunto al riscaldamento globale, senza però individuare il modo esatto con il quale ciò potrà avvenire. E tra gli incontri (almeno un po’ si parla), da una manciata di giorni a Montreal è terminata la Cop 15, la Conferenza delle parti della Convenzione Onu sulla diversità, che si svolge ogni due anni con lo scopo di valutare lo “stato di salute” della diversità biologica mondiale. Su cui, lo sappiamo, purtroppo non stiamo messi benissimo: la ricchezza della biodiversità è molto compromessa per via delle attività umane, una meravigliosa complessità di vita che, a guardare i numeri, rivela come oggi un milione di specie, soprattutto ad esempio gli insetti, rischia di sparire per sempre. L’accordo tra i Paesi è quello di proteggere il 30% di terre e il 30% di mari entro il 2030, definito un vero e proprio patto con la natura. Questo significa limitare al massimo la deforestazione e conservare gli ambienti e la diversità biologica, con un occhio anche a quei popoli (pochi, ma ci sono) che vivono ancora nei nostri tempi in un equilibrato rapporto con la natura.

Anche se il patto di cui sopra è stato definito storico, per raggiungere un 2030 ottimale, già da adesso i 196 governi che hanno partecipato alla Cop 15 sulla biodiversità dovrebbero disegnare i relativi piani d’azione. Tra questi, le nazioni ricche sono chiamate ad aiutare i paesi in via di sviluppo con un tesoretto di 30 miliardi di dollari all’anno, considerati però troppo pochi dai diretti interessati.

L’accordo di Montreal, definito anche come il “piano 30×30”, per via della percentuale di terre e mari coinvolti (attualmente solo il 17% delle terre e l’8% dei mari sono protetti), assomiglia un po’, dicono gli esperti, all’accordo storico sul clima che ci fu nel 2015 per ridurre l’aumento della temperatura globale del clima di 1,5°. Tutti d’accordo, anche allora, ma i risultati, a fine 2022, non sono certamente quelli sperati, come la vulnerabilità del nostro pianeta continua ad urlare.