Artemisia Gentileschi, la forza della sua pittura

La forza di Artemisia Gentileschi

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Quando si parla di Artemisia Gentileschi, come a proposito della mostra che fino al 7 maggio si può ammirare al Museo di Roma Palazzo Braschi, spesso si parla soprattutto dello stupro di cui fu vittima da parte di Agostino Tassi, pittore amico di suo padre che certo non fece moltissimo, durante il processo che ne seguì, dopo un anno dal fattaccio e che la costrinse a sposare un altro artista di non grande talento, dicono gli esperti, trasferendosi da Roma a Firenze.

Allora, si è quasi portati a pensare a quello, alla ‘vergogna’ da lei subita, nonostante la quale lei continua a dipingere. Per un uomo, no, non si dice che porta avanti la sua attività in seguito a un grave dramma, certo, gli uomini non vengono violentati.

Però, però, di Artemisia prima si parla della sua sfortuna, poi della sua arte, sottolineando come, ‘nonostante tutto’ lei ce l’abbia fatta, a diventare quella grande artista già celebrata ai suoi tempi (è scomparsa nel 1653) e ancora oggi.

Le sue opere sono forti, piene di livore, con donne che spesso da vittime (appunto) si trasformano in spietate carnefici (di nuovo appunto). I personaggi ritratti, come Giuditta che taglia la testa a Oloferne (conservato al Museo di Capodimonte), mostrano tutta la forza di appassionate giustiziere, come se in fondo solo in tal modo (tagliando la testa) possano davvero avere giustizia (e sollievo).
Tra i dipinti molti dei quali legati ad altri illustri rappresentanti contemporanei di Artemisia, ne spicca uno che non si mostra truculento e drammatico ma parla piuttosto di dolcezza, bordata di tristezza, però: è l’autoritratto della pittrice ‘come suonatrice di liuto’ (conservato al Wadsworth Atheneum di Harford Connecticut), figura luminosa, nonostante lo sfondo scuro.